Nei discorsi sulla strage in Bangladesh sembra si sia volutamente taciuta la situazione sociale in cui si è sviluppata l’azione terrorista
di Fabrizio Poggi* – Contropiano
Nei commenti alla strage di Dhaka, costata la vita a 20 persone – 9 italiani, 7 giapponesi, 2 bangladesi, uno statunitense e un indiano – sembra si sia volutamente taciuta la situazione sociale in cui si è sviluppata l’azione del commando terrorista.
L’attività svolta in Bangladesh dalle vittime, non solo quelle italiane – quasi tutti manager o dipendenti di imprese tessili – rimanda mentalmente al posto occupato dal paese nella divisione mondiale del lavoro: centro tra i più frequentati dalle multinazionali tessili e dell’abbigliamento in cui delocalizzare le proprie produzioni, utilizzando a proprio vantaggio il supersfruttamento con cui le ditte locali estraggono plusvalore (assoluto e relativo: orari di lavoro infiniti e briciole di salario) da quella che è l’unica strada di sopravvivenza per uomini, bambini e donne bangladesi.
L’ultima volta che i media nostrani si erano occupati un po’ più diffusamente del Bangladesh – la cui industria dell’abbigliamento è valutata in 18 miliardi di $; il paese esporta anche pellami per milioni di dollari in settanta paesi, tra cui Italia, Stati Uniti, Giappone e Cina – prima della tragedia di Dhaka del 2 luglio, era stato nell’aprile del 2013, allorché il crollo di un edificio di otto piani che ospitava varie imprese tessili sempre a Dhaka, causò la morte di oltre 1.130 lavoratori.
La situazione, da allora, è cambiata di pochissimo, salvo forse il tentativo dell’Ilo (Organizzazione internazionale del lavoro), l’agenzia dell’Onu che si occupa di sicurezza sul lavoro, di coinvolgere le centinaia di imprese straniere che producono in Bangladesh a spendere pochi centesimi di euro in alcuni accorgimenti strutturali negli ambienti di lavoro: uscite di sicurezza e antincendio, luci di emergenza, impianti elettrici a norma, ecc., per una spesa valutata in tre miliardi di $: cioè, considerato il volume della produzione, 8 centesimi in più per ogni capo. In quell’occasione, nel 2013, significativamente il Wall Street Journal aveva titolato “Cosa hanno in comune Armani, Ralph Lauren e Hugo Boss? Il Bangladesh”; e anche, si potrebbe aggiungere, lo stesso pugno di borghesia locale con cui fare affari sulla pelle dei “loro” operai, sia per la cosiddetta alta moda, che per quella degli indumenti meno costosi come H&M, Zara, Walmart.
Parlando del Bangladesh, non è sufficiente dire che è uno dei paesi più poveri al mondo e non basta neanche ricordare che tale povertà si esprime in un “prezzo della manodopera” tra i più bassi del pianeta, il che ovviamente alletta i capitali (soprattutto stranieri) sempre alla ricerca – ci si scusi la reiterazione dell’evidenza marxista – del massimo profitto, con condizioni di lavoro semischiavistiche. Sul sito vnavarro.org si può leggere che “il maggior problema del Bangladesh (il paese più povero al mondo assieme ad Haiti) non è la mancanza di risorse, ma il loro controllo.
Nonostante la maggior parte della sua popolazione sia molto povera, il Bangladesh non è un paese povero… La causa di tanta povertà non è ovviamente la mancanza, bensì il controllo delle risorse.
Il 16% dei proprietari terrieri controlla il 60% di tutta la terra, coltivata per poi esportare cibo verso i cosiddetti paesi sviluppati. I proprietari terrieri sono alleati in una casta al servizio di compagnie straniere del settore agricolo che dirigono lo sfruttamento della terra: ciò che si produce, come si produce e come si distribuisce… Questa oligarchia agricola è alleata con altri interessi domestici, a loro volta legati a compagnie straniere che producono in Bangladesh a costi bassissimi.
La popolazione che fugge la miseria agricola accetta dei salari miserrimi perché non c’è altra possibilità.
Questa struttura economico-politica mantiene la maggior parte dei lavoratori, in tutti i settori dell’economia incluso il tessile, senza alcuna protezione. Il settore tessile è controllato dai grandi colossi che dominano il mercato internazionale come, tra i tanti, Benetton, H&M e Mango, e da una lunga lista di catene internazionali di distribuzione e commercio, come per esempio El Corte Inglés. Queste compagnie operano in Bangladesh grazie al bassissimo costo della manodopera (0,21 euro l’ora), che lavora in condizioni miserabili, in fabbriche carenti dei requisiti minimi di sicurezza”.
“Una medesima t-shirt prodotta in Bangladesh per la marca G-Star Raw in un negozio di Londra costa 60 sterline”, scrive ancora post.it; “una della italiana Replay 35 sterline; una di Tommy Hilfiger quasi 40 dollari. Marchi come Tommy Hilfiger, Calvin Klein o Giorgio Armani hanno un prezzo più alto perché il marchio ha una reputazione che fa la differenza, afferma Ralston Fernandez, vice-presidente senior per le operazioni di “ZXY Apparel Buying Solutions”, società bangladese che si occupa di piazzare gli ordini dei rivenditori alle fabbriche locali. Secondo Mohammad Zulficar Ali, direttore esecutivo di una società che si occupa di curare i rapporti tra fabbriche produttrici e grandi marchi, il costo di produzione di una t-shirt di Primark sarebbe l’equivalente di 1,20 euro, 3,80 euro per una di Tommy Hilfiger e 4,60 dollari per una di G-Star Raw. Secondo i proprietari tessili bangladesi, i margini di profitto tendono a essere gli stessi indipendentemente dal cliente, e tutti tendono ugualmente ad abbassare i costi di produzione”.
E lo fanno, sia tenendo i salari al di sotto del minimo di sopravvivenza, sia estendendo gli orari di lavoro oltre ogni limite.
Un dato significativo riportato dalla CIA è quello del lavoro minorile, riferito ai bambini tra i 5 e i 14 anni di età: al 2006 i piccoli schiavi erano poco meno di 5 milioni (13% di tale fascia di età): anche se è difficile accogliere il dato a occhi chiusi, dal momento che da tale “graduatoria” mancano quasi tutti i paesi cosiddetti sviluppati e per l’Europa, ad esempio, vi figurano soltanto l’Albania (12%) e l’Ucraina (7%).
Ma le preoccupazioni della CIA si esprimono soprattutto a proposito della distribuzione della popolazione secondo l’età.
Con una popolazione infantile in Bangladesh da 0 a 14 anni che rappresenta il 31.62% del totale (circa 54 milioni) e quella tra i 15 e i 24 anni il 18.86% (circa 32 milioni), a fronte del 6,12% di popolazione tra i 55 e i 64 anni e 5.13% oltre i 65 anni, gli “analisti” yankee sostengono che, in generale “La struttura per età della popolazione influisce sui principali problemi socio-economici di una nazione. I paesi con popolazioni giovani (alta percentuale sotto i 15 anni) devono investire di più nelle scuole, mentre i paesi con popolazione più anziana (elevata percentuale sopra i 65 anni) devono investire di più nel settore della sanità. La struttura per età può anche essere usata per prevedere potenziali problemi politici. Ad esempio, la rapida crescita di una popolazione giovane adulta in grado di trovare un lavoro può portare a disordini”. Problemi questi, che sembrano restare abbastanza lontani dal Bangladesh: i giovani e giovanissimi, se riescono a superare lo scoglio scosceso della sopravvivenza, non necessitano di scuole e lavorano nelle “galere” del capitale occidentale e locale e gli anziani lasciano presto questa terra, con un’aspettativa di vita di 70,94 anni che posiziona il Bangladesh al 151° posto mondiale.
Per quanto riguarda più specificamente l’infanzia, i dati del 2011 davano il Bangladesh al poco invidiabile 5° posto mondiale per percentuale (36,8%) di bambini sotto i 5 anni considerati sottopeso.
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