Libia, la vera guerra è tra Renzi e i generali

L’intervento imminente in Libia? Una bufala diffusa dai dirigenti della Difesa. Irritati dalla riforma dei servizi, che mette le truppe speciali agli ordini dell’Aise.

Da giorni, i venti di guerra sulla Libia si sono placati.

Conseguenza del netto altolà pronunciato da Matteo Renzi e delle conferme sempre più articolate di Paolo Gentiloni, il quale il 15 marzo ha spiegato che i passaggi formali prima di arrivare a un eventuale intervento sono tre: richiesta di un nuovo governo libico legittimo (che ancora non esiste); voto del Consiglio di Sicurezza Onu (senza veto della Russia, ha specificato); voto del parlamento italiano.
Al più presto, un arco di sei-sette mesi.
Resta il fatto sconcertante di una calma che interviene dopo la tempesta, perché per più di due settimane tutti i media italiani davano l’intervento come imminente.
I GENERALI CONTRO MINNITI. Sconcerto che aumenta se si indaga e si scopre che quei venti di guerra erano soffiati dai generali e dal ministero della Difesa, che agiva e propalava notizie ai media assolutamente contrastanti con la volontà del governo. Nello specifico, con la strategia di Marco Minniti, Giampiero Massolo e quindi Matteo Renzi.
Un piccolo scandalo che ha visto alcuni generali, in particolare alcuni dirigenti del ministero della Difesa, fare di tutto per fare credere che l’Italia stesse per andare in guerra in Libia, avvelenare i pozzi, inquinare la stampa con notizie fasulle, manovrare per fini utili solo a loro.
Sotto gli occhi di tutti, ma da nessuno rilevato, questo scandalo ha messo Roberta Pinotti in una difficile posizione di mediazione tra un comando politico di Renzi – che peraltro condivide in pieno – e le fortissime pressioni belliciste, a parole, di un quadro militare e ministeriale con cui non può rompere e che fatica visibilmente a contenere.

Il contenzioso sulla riforma dei Servizi segreti

Marco Minniti.

(© Ansa) Marco Minniti.

Il tutto, si badi bene, non perché ai generali italiani prudano le mani dalla voglia di andare a combattere in Libia. Anzi. Ma perché misurano le prese di posizione e le iniziative militari dell’Italia col metro dei rapporti di forza in sede Nato.
Per ragioni (basse) di teatrino della politica, con logiche (perverse) tutte interne al comando della Alleanza Atlantica e con poco e cinico interesse al contesto libico.
Ragioni a cui si aggiunge un nuovo, scottante contenzioso. Con la riforma delle Garanzie funzionali degli agenti dei Servizi segreti, impostata da Minniti e varata da Renzi nel febbraio 2015, si è creata una situazione giudicata intollerabile da molti generali.
IL COMANDO DELLE TRUPPE ALL’AISE. Sotto il comando politico del premier, infatti, gli agenti dell’Aise possono avere direttamente il comando di truppe speciali (del Col Moschin, del Comsubin, ecc), sottratte così alla linea gerarchica delle Forze armate.
Una riforma eccellente sul piano della funzionalità, ma giudicata un’onta da lavare da non pochi generali.
Ragione in più per mettere il governo in difficoltà, tempestando le redazioni dei giornali di boatos sull’imminenza dell’entrata in guerra, una delle cui prove sarebbe stato proprio il decreto della presidenza del Consiglio, che istituisce la cabina di regia da cui Renzi può dirigere le operazioni speciali dell’Aise e dei commando assegnati.
Il decreto è stato firmato ora solo perché i tempi tecnico-procedurali della riforma varata un anno fa sono stati, al solito, lunghi: non indicava affatto un’immenente entrata in funzione di un dispositivo bellico.
Ma queste sono finezze troppo sottili per i palati grevi del nostro giornalismo, che non ha indagato e ha preso per buona la bufala di un Renzi pronto a giocare subito a Risiko sulle coste libiche
LA PRESSIONE SUI MEDIA. Dunque, una aperta e subdola rotta di collisione con la direzione politica della crisi libica gestita da Minniti (e Massolo), non solo con grande prudenza, pure mediatica, ma anche sulla base di un principio strategico opposto a quello della nostra “entrata in guerra”.
Principio strategico il cui baricentro è dato dalla possibilità per il comando italiano della missione internazionale – una volta ricevuta la legittima richiesta di un legittimo governo libico – di contare su 40-60 mila miliziani libici per quanto riguarda il boots on the ground.
Un esercito i cui leader e generali hanno più volte concordato piani politici e militari, di coordinamento e ripartizione del territorio nel corso di una lunga serie di discretissime riunioni a Roma e in Libia.
Ma dal ministero della Difesa, nelle ultime settimane, si è intensificata la pressione sui media, che ovviamente l’hanno raccolta, con indicazioni “certe”, quanto inventate, di un’accelerazione bellica a tutto tondo. Di una guerra classica, come quella che stanno già conducendo le truppe speciali francesi e inglesi operative sul suolo libico da settimane.

Le dichiarazioni avventate della Pinotti

Il ministro della Difesa Roberta Pinotti accanto al premier Renzi.

(© Ansa) Il ministro della Difesa Roberta Pinotti accanto al premier Renzi.

Il risultato è stato l’ennesimo corto circuito che ha costretto Renzi a smentire la Pinotti.
Questa, il 28 gennaio, su pressione dei suoi generali ha annunciato un timing preciso: «Non possiamo immaginarci di far passare la primavera con una situazione libica ancora in stallo. Nell’ultimo mese abbiamo lavorato più assiduamente con americani, inglesi e francesi. Non parlerei di accelerazioni, tanto meno unilaterali: siamo tutti d’accordo che occorre evitare azioni non coordinate, che in passato non hanno prodotto buoni risultati. Ma c’è un lavoro più concreto di raccolta di informazioni e stesura di piani possibili di intervento sulla base dei rischi prevedibili».
Di fatto, l’indicazione – pur prudente e frutto di un mediazione – di una scadenza da qui a giugno, guarda a caso proprio a ridosso delle elezioni amministrative. Parole che, forse involontariamente, davano concretezza ai boatos bellicisti sapientemente fatti filtrare dalla Difesa ai media.
LA SMENTITA DI RENZI. Furioso, Renzi ha deciso di smentire frontalmente – e non per la prima volta – i suoi generali (e quindi il suo ministro della Difesa) a modo suo.
Domenica 6 marzo si è fatto ospitare a Domenica Live su Canale 5, in casa di Berlusconi, e di fronte a un grande pubblico nazional popolare ha detto: «Ci vuole calma, la guerra non è un videogioco. Non è all’ordine del giorno la missione militare italiana perché la prima cosa da fare è che ci sia un governo che sia solido, anzi strasolido, e abbia la possibilità di chiamare un intervento della comunità internazionale e non ci faccia rifare gli errori del passato. L’ipotesi dei 5 mila uomini in Libia non c’è. Punto».
Parole dure, quasi a dire che la Pinotti, su pressione dei suoi generali, parla come se fosse di fronte a un videogioco.
E il riferimento ai 5 mila uomini non è casuale.
LE PAROLE DEL MINISTRO NEL 2015. Lo stesso ministro, nel gennaio 2015, ispirata dai suoi generali diceva: «Il tempo dell’attesa non deve consentire all’Isis di conquistare la Libia. L’Italia è pronta a guidare in Libia una coalizione di Paesi dell’area, europei e dell’Africa del Nord, per fermare l’avanzata del Califfato che è arrivato a 350 chilometri dalle nostre coste».
E ancora: «Se in Afghanistan abbiamo mandato fino a 5 mila uomini, in un Paese come la Libia, che ci riguarda molto più da vicino e in cui il rischio di deterioramento è molto più preoccupante per l’Italia, la nostra missione può essere significativa e impegnativa, anche numericamente. Disponiamo di tre forze e i carabinieri, che operano come un tutt’uno. Mezzi, composizione e regole d’ingaggio li decideremo con gli alleati in base allo spirito e al mandato della missione Onu. Le autorità libiche – è una delle ipotesi allo studio – potranno richiedere un’operazione simile a quella in Iraq: truppe che combattono l’Isis, altre che presidiano il territorio».
Parole avventate allora. Pressioni indebite dei generali allora e oggi. Una situazione scabrosa.

 

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