Sta facendo discutere il cartello affisso all’entrata di Pontoglio, cittadina di 7mila abitanti in provincia di Brescia, in cui il sindaco di centrodestra ha fatto scrivere: “Paese a cultura occidentale e di profonda tradizione cristiana. Chi non intende rispettare la cultura e le tradizioni locali è invitato ad andarsene”. Cosa vuol dire, di preciso, il cartello? La traduzione più genuina e verosimile è senz’altro: “Gli stranieri non rompano i coglioni”. E se al posto di “stranieri” mettiamo “islamici”, probabilmente ci avviciniamo ancora di più alle reali intenzioni dell’amministrazione.
Il fattore di discontinuità dalla retorica del dialogo, dell’accoglienza, del “prima gli stranieri, poi gli italiani”, può sicuramente ispirare simpatia, ma non di meno l’iniziativa resta goffa. Le due espressioni, “cultura occidentale” e “tradizione cristiana”, si espongono a una serie infinita di obiezioni storiche e filosofiche (e fa anche un po’ sorridere che Pontoglio, con tutto il rispetto, intenda farsi carico di un fardello ideologico tanto gravoso, come se tutta la storia degli ultimi duemila anni fosse condensata in una cittadina del bresciano). Ma, per evitare l’accusa di fare dello sterile intellettualismo che spacca il capello in quattro, diamo per buono ciò che buono non è, ovvero che le espressioni “cultura occidentale” e “tradizione cristiana” riassumano, semplicemente, il senso di ciò che siamo “noi” in contrapposizione agli “altri” (giacché, par di capire, l’esistenza di italiani che non si riconoscano né nell’Occidente né nel cristianesimo non è contemplata).
Ma anche fatto questo sforzo, c’è qualcosa che non convince nel cartello di Pontoglio ed è la stessa cosa che lascia perplessi nel revival di identitarismo casareccio e ribellione spontanea alle boldrinate varie. Insofferenze sicuramente positive, ma che hanno un vulnus: ciò che è sano e si vorrebbe contrapporre al “malato” del gender, dell’immigrazionismo folle o di certo laicismo insensato viene individuato nella società attuale. Ciò che dobbiamo difendere, ciò che ci piace, ciò che gelosamente dovremmo conservare, è quindi il presente, questo presente. L’oggi, puro e semplice, magari appena un po’ venato di ieri. Ma comunque è questa cosa qui, il mondo che viviamo quando usciamo di casa: qui sarebbe l’arca dei valori, ce l’abbiamo tra le mani, basta solo lasciarlo così com’è. È la Pontoglio del 2015, quasi 2016. È questa Italia. Basta solo alzare un muro contro gli stranieri e goderci questo splendido Eden.
Ecco, tutto questo, drammaticamente, non funziona. E in questo caso non si tratta di un sofisma, è un problema dalle ricadute pratiche evidenti. Perché se non ci si accorge che è proprio questo presente che, radicalmente, va sovvertito affinché la nostra identità e, direi, persino la nostra stessa sopravvivenza fisica siano garantite, allora non si è capito nulla. Tutti i pericoli esterni che oggi avvertiamo sono in realtà gli sviluppi di malattie interne. Se si è giunti a questo punto è proprio per i criminali cedimenti del nostro modello di famiglia, del nostro Stato, dei depositari delle religioni dominanti. Se le nostre tradizioni sono a rischio è perché non sono già più tradizioni vive ma abitudini borghesi. Questo è il punto fondamentale. Se non lo si capisce, si rischia di innalzare barricate di fumo per custodire un Graal di fango.
Adriano Scianca
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