Tre giorni senza Andreotti. Trentacinque anni senza Moro

Bruno Vespa ha ossequiato la scomparsa di Giulio Andreotti con una puntata di Porta a Porta non mancando di suggellarla con l’aforisma del divo scomparso che aveva definito il noto talk show con l’epiteto di Terza camera della Repubblica. Presto fatto il copione celebrativo per omaggiare l’anima democristiana per eccellenza con le presenze del fido Pierferdinando Casini, del ministro ciellino Lupi, il biografo Massimo Franco, lo storico curiale Paolo Mieli, un addormentato Gianni De Michelis che ha candidamente ridotto la posizione umanitaria sulla sorte di Moro ad opportunismo politico e infine, ospitando un blando Luigi Berlinguer chiamato a rappresentare il pensiero critico su Andreotti limitandosi a sottolinearne il carattere clientelare e di sottogoverno della sua corrente.
Il presunto neutralismo di Vespa non ha minimamente pensato di dare parola al procuratore Caselli oppure a tentare un colpo giornalistico rappresentando i pensieri di Saviano, ed evitiamo di far riferimento all’opera di Giulio Cavalli che con libro e teatro ha avuto il merito di smontare quel revisionismo vespiano che con puntata ad hoc aveva tentato di rubricare la sentenza finale nel processo di Palermo ad assoluzione piena e non a reato prescritto per le lungaggini della nostra Giustizia.
Preferisco, comunque, la partigianeria manifesta di Vespa rispetto al Ponzio Pilato del Quirinale che ha rinviato al giudizio della Storia l’uomo di governo più’ influente della Prima Repubblica.

Eppure le cronache sono piene di pagine nere del defunto senatore a vita. Era il 1982, e Dalla Chiesa era stato massacrato dalla mafia quando ad una Festa dell’Amicizia Andreotti incalzato da Giampaolo Pansa proferiva a futura memoria: “In Sicilia, Lima è rispettato e lodato”. Infatti girava nelle blindate degli esattori Salvo grandi elettori di Andreotti. Non lamento che quasi nessuno abbia fatto riferimento all’abbraccio di Andreotti al massacratore della Libia Graziani, ma almeno sulle vicende di mafia un po’ di più stretta filologia. L’attuale presidente del Senato Grasso forse ricorderà quello che disse Giulio Andreotti nel 1986 al maxiprocesso di Palermo, in quell’occasione nel ruolo di qualificato testimone. L’uomo dei misteri italiani sostenne di non aver mai parlato con il superprefetto Dalla Chiesa dei rapporti tra mafia e politica. Il diario del generale prova tutt’altra tesi. Ancor più false le risposte date all’epoca sui democristiani siciliani quando sibilò al banco: “E poi basta con questa caccia alle streghe: portate delle prove contro Lima. Sono anni che la lotta politica in Sicilia si fa per allusioni….perfino Vittorio Emanuele Orlando dovette giustificarsi in Parlamento dall’accusa di essere mafioso”. A Cosa Nostra non servirono molte prove invece per chiudere la partita con Lima e Andreotti nel tragico 1992 che sbarrò l’ascesa al Quirinale dell’intramontabile Giulio e recise la vita dell’ambiguo Salvo.

Bizzarra e ambigua anche la scelta di Vespa di incrociare Andreotti e Moro attraverso l’uscita del libro di Ferdinando Imposimato contenente presunte prove sconvolgenti sulla mancata liberazione di Moro ma liquidate senza nessun approfondimento. Eppure bastava stare al Memoriale di Moro scritto nelle prigioni delle Brigate Rosse in cui il presidente della Dc pronuncia feroci accuse al presidente del Consiglio dell’epoca, Giulio Andreotti. Moro ne critica il carattere, la linea politica, il suo presente e il suo passato di uomo politico. Capisco, un po’ troppo per Vespa. Magari pero’, una finestra sul recente libro “Il potere fragile. I consigli dei ministri durante il sequestro Moro” scritto dai parlamentari del Pd, David Sassoli e Francesco Garofani, poteva essere utile a far capire come Giulio si pose davanti al destino di Aldo, fin dall’arrivo della prima drammatica lettera, davanti alla quale Andreotti sentenziò: “Gli argomenti che pone sono di estrema delicatezza, e non è il caso di parlarne oggi”.

Viene in mente quel profetico articolo del 1974 di Pasolini sul Corriere della Sera dedicato a “Il vuoto del potere in Italia” in cui si leggeva: “E’ probabile che in effetti il di cui parlo stia già riempendosi, attraverso una crisi e un riassestamento che non può non sconvolgere l’intera nazione”, e non mi sembra per nulla causale che a quella storica analisi sullo stesso giornale rispose pochi giorni dopo proprio Giulio Andreotti scrivendo una eloquente articolo titolato: “Non è mai esistito un regime democristiano”.
Prodromi di quel dibattito che oggi vede contrapposti gli italiani chi a giudicare Andreotti un santo chi a dipingerlo come Belzebù. Sono tre giorni che è morto e sappiamo che le sue ombre per decenni ci accompagneranno molto più delle sue luci. Oggi sono 35 anni che è morto Moro. Se fosse tornato vivo Andreotti avrebbe avuto molti problemi sul suo presente. Il pavido Napolitano oggi alla commemorazione al Senato si guarderà bene dell’affrontare la questione. Anche per questo motivo preferivo Rodotà al Colle, uno che davanti al corpo di Moro ucciso auspicava in un articolo su Repubblica un governo della sinistra capace di porre un distacco con “un passato d’inefficienza e corruzione in cui pure il terrorismo ha trovato il suo alimento”.
Trentacinque anni dopo governa invece la farsesca restaurazione del potere vuoto democristiano attraverso la giovanilistica rappresentazione del premier Letta, nipote di uno dei più stretti ufficiali di collegamento della nomenclatura andreottiana. Aveva ragione Pintor. Moriremo democristiani.

di Paride Leporace

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