Il momento è arrivato? Di certo si sa che l’anno, il 2012, sembra essere quello «giusto». Perché di una cosa sono convinti tutti, israeliani e non: lo Stato ebraico lancerà il suo attacco contro l’Iran entro quest’anno. E lo si capisce, tra le tante cose, dalle reazioni stizzite del premier israeliano Benjamin Netanyahu: «Basta dire a giornalisti o alle conferenze che l’attacco a Teheran è imminente», ha sbottato contro ministri, consiglieri della sicurezza e vertici militari. Un divieto arrivato da un uomo che ha sempre strizzato l’occhio ai media per anticipare le sue mosse. Il resto è rappresentato da una miriade di informazioni, segrete o meno, pubblicate ovunque, oppure sussurrate. Alla fine si ha la sensazione che possa succedere di tutto. Ma anche che tutto continui senza che una bomba venga lanciata contro un Paese.
Certo, la guerra all’Iran non è più un tabù. Stavolta si fa sul serio. E le strade a questo punto sono soltanto due.
La prima: in un crescendo di minacce e di fobie nucleari, Teheran e Gerusalemme decidono di non far scoppiare una terza guerra mondiale perché i costi umani ed economici sarebbero insopportabili. Insomma: una sorta di equilibrio del terrore, lo stesso principio che ha evitato scontri diretti durante la Guerra Fredda tra Stati Uniti e Unione Sovietica.
L’altra strada, per ora molto più gettonata, è quella dello scontro armato. Bombardamenti contro le centrali nucleari dell’Iran, rappresaglia di Ahmadinejad, scontro in tutto il Medio Oriente, con i Paesi della Lega Araba costretti a schierarsi con gli uni o gli altri.
«Il tempo per evitare il conflitto si sta esaurendo rapidamente», ha detto il ministro israeliano della Difesa Ehud Barak. E l’ha fatto in un posto-chiave per le strategie di Gerusalemme: la conferenza annuale sulla sicurezza che si svolge a Herzliya. «Dobbiamo far sì che l’Iran non arrivi al punto di non ritorno, quella fase in cui qualsiasi cosa noi facciamo, dalle bombe in giù, non servirà a niente perché il programma di arricchimento dell’uranio sarebbe in un momento troppo avanzato».
Pochi giorni dopo, sabato 11 febbraio, ci ha pensato direttamente il presidente iraniano Mahmoud Ahmadinejad a rispondere agl’israeliani. E l’ha fatto in un momento pubblico e di visibilità mondiale: il 33esimo anniversario della Rivoluzione che ha cacciato lo scià di Persia e instaurato una dittatura religiosa. Ha detto Ahmadinejad: «Il mondo sappia che nonostante tutte le pressioni, l’Iran non arretrerà di un passo nello sviluppo del suo programma nucleare». E per quanto riguarda le sanzioni imposte da Usa e Paesi occidentali, il presidente ha aggiunto: «Tutte queste pressioni sono futili. Noi non solo ora abbiamo le conoscenze specifiche in campo nucleare, ma siamo in grado di soddisfare le nostre necessità grazie ai nostri esperti». Per poi arrivare al gran finale: «La Repubblica Islamica inaugurerà nei prossimi giorni diversi progetti nucleari molto importanti».
L’Iran ha fretta. Israele pure. Gli Usa, invece, sono terrorizzati dal dover affrontare uno scontro di proporzioni mondiali. E in un momento – come quello delle elezioni presidenziali – molto delicato. Qualcosa si potrà capire dall’incontro che il premier israeliano avrà con Obama agli inizi di marzo. Secondo molti lì si deciderà cosa fare. Anche se la situazione è molto confusa, a dire il vero. Così confusa che Washington avrebbe avuto una promessa da Gerusalemme: prima di attaccare l’Iran, Israele avvertirà «con un congruo preavviso» gli Usa.
Quello che manca è l’indicazione temporale del «congruo preavviso»: di quanto si tratta? Un mese? Una settimana? O, come dicono molti giornalisti israeliani, soltanto due ore? Il tempo per non far indispettire l’alleato più prezioso, ma anche di evitargli interventi in extremis in grado di far saltare tutta la missione. Anche se alcuni funzionari americani, in visita a Gerusalemme pochi giorni fa, hanno chiaramente urlato ai loro colleghi israeliani che lo Stato ebraico «sta guardando in un modo distorto la questione iraniana».
Intanto i caccia americani si stanno facendo vedere a ogni ora del giorno, in queste ultime due settimane, nella fascia che va dal Sinai al Golfo persico. Il tutto mentre tre ispettori dell’Aiea, a fine gennaio, sono andati a far visita agl’impianti nucleari iraniani. Ma una volta nell’ex Persia non solo sono stati tenuti alla larga dai centri di arricchimento, non hanno potuto nemmeno parlare con Mohsen Fakhrizadeh, uno sconosciuto esponente delle Guardie rivoluzionarie, sulla cinquantina d’anni d’età, l’eminenza grigia – secondo molti – del programma nucleare iraniano. Insomma: un disastro. Perché – dicono gli analisti israeliani – «se non parla Fakhrizadeh non lo faranno nemmeno i circa 600 scienziati alle sue dipendenze. E quindi non potremmo mai sapere nulla di dove stia andando il programma nucleare di Teheran».
Le poche informazioni disponibili in mano all’intelligence israeliana dicono che le centrifughe avanzate e le scorte di uranio arricchito si troverebbero quasi tutte sottoterra, nei laboratori sorvegliati 24 ore su 24 di Fardu (nella foto a fianco), nei pressi della città di Qom. I bunker sono impenetrabili: le bombe Usa non ci arrivano così in profondità e gl’israeliani non hanno ancora missili in grado di farlo. È questa la «zona d’immunità» di cui ha parlato nella conferenza di Herzliya il ministro Barak. Una zona che è impossibile da distruggere. A meno di un’invasione militare via terra con uomini e mezzi.
Ma Israele teme un attacco a sorpresa. Razzi nucleari, e non solo, in grado di distruggere tutte le installazioni militari sparse per il Paese. Ali Reza Forghani, capo del team strategico del leader supremo, Ali Khamenei, il 5 febbraio è stato fin troppo esplicito: «Ci servono soltanto nove minuti per spazzare via Israele». È chiaro che per distruggere lo Stato ebraico «in nove minuti» c’è bisogno soltanto di una bomba nucleare. E del resto in un documento si dice esplicitamente che, a queste condizioni, «Teheran dovrebbe attaccare per prima».
Intanto sul fronte militare, venerdì 10 febbraio Israele e Stati Uniti hanno testato il sistema di radar di nuova generazione in grado rendere ancora più efficiente lo scudo antimissilistico dello Stato ebraico. «Una tappa ulteriore di avvicinamento verso la guerra con l’Iran», sostengono in molti. In gioco non c’è soltanto l’incolumità d’Israele, ma anche lo Stretto di Hormuz, l’area dove passa il rifornimento petrolifero di mezzo mondo.
In tutto questo Hamas torna a farsi sentire. «Non riconosceremo mai Israele», ha detto a Teheran il leader del movimento palestinese, Ismail Haniyeh. Una presenza insolita, quella di Haniyeh, perché raramente personalità straniere vengono invitate a parlare in pubblico in Iran. E comunque. Ha aggiunto poi il leader islamico di Gaza che «la lotta dei palestinesi continuerà fino alla liberazione della totalità della terra di Palestina, di Gerusalemme e il rientro di tutti i rifugiati palestinesi».
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