Padova. Studio di un commercialista. La scenetta è ripresa da una videocamera nascosta. Un uomo e una donna, entrambi cinesi, ricevono una specie di pergamena.
La donna apre la borsetta, guarda l’uomo, poi consegna un fascio di banconote. Sono 1.800 euro in contanti. E quei due cinesi, fra un paio di giorni, potranno aprire il loro minimarket a Porto Garibaldi, nella ricca provincia di Rovigo.
Tutto avviene in un paio di minuti. I due cinesi attendono la conta del denaro. Il commercialista è concentrato, rigira le banconote fra le dita con destrezza da bancario. Ci sono tutti, avanti il prossimo. Niente convenevoli, sembra un copione già visto.
Quella pergamena è identica, in tutto e per tutto, al cosiddetto Rec, il certificato che autorizza la somministrazione e la vendita dei prodotti alimentari. E quello scambio è ormai un rituale. Il malloppo se lo dividono il commercialista padovano e un ragioniere veneziano, Giuseppe Girardi, 63 anni, consulente del lavoro. È lui il motore dell’operazione. Lui che dovrebbe controllare norme igieniche e sicurezza, alla faccia dei cavilli e della 626, s’è inventato una scorciatoria tutta italiana per arricchirsi. Fa il falsario, ma non di opere d’arte, così difficili da smerciare in tempi di crisi. No, le sue patacche sono documenti, diplomi, attestati, certificati. Proprio come quello che appena venduto alla coppia di cinesi.
Produce tutto quel che serve per fregare lo Stato e scansare la lenta e asfissiante burocrazia italiana. E i clienti non mancano. Soprattutto cinesi. Vogliono aprire bar, ristoranti, panetterie, negozi. In fretta e furia. Senza troppe complicazioni.
L’iter degli onesti è ben più complicato. Per ottenere il Rec, la licenza comunale, serve fare un corso: 120 ore, frequenza obbligatoria. Molto più facile affidarsi al buon Girardi, che nel tempo affina pure le tecniche da falsario. Parte con certificati piuttosto dozzinali, poi si perfeziona sui colori e sui caratteri, fino a produrre – grazie a scanner e e software avanzato – dei piccoli capolavori.
Che non hanno nulla da invidiare agli agognati permessi originali. La produzione aumenta, come i guadagni. Finché, come una piccola zecca clandestina, i certificati sono prodotti in serie. Con numeri progressivi inventati e una piccola, invisibile, imperfezione che per mesi e mesi sfugge ai controlli. Su quelle pergamene manca un sigillo. È il timbro a secco della Regione, l’unico dettaglio irriproducibile, malgrado lui ci provi.
È da questa minuscola falla nel piano dei due veneti che la Guardia di Finanza si insinua. Finché scopre una vera e propria miniera d’oro: tra casa e ufficio le Fiamme gialle scovano faldoni interi di certificati fasulli. Centinaia di documenti contraffatti, accatastati, pronti a essere consegnati in cambio di contanti. Documenti che indicano ai militari una seconda pista, che li porta dritti dentro il mondo dei corsi di formazione. I cinesi non hanno tempo per frequentare i corsi obbligatori, né spesso la conoscenza dell’italiano gli permetterebbe di seguire le lezioni. Quel che possono fare i cinesi è pagare, molto e subito. E così la Finanza si concentra su due scuole del Lazio.
È qui che, periodicamente, i caporali della mafia cinese – che usano nomi italiani come Antonio e Giuseppe – scaricano interi pullman di connazionali. Tutta gente che non frequenterà una sola ora di corso, ma che è lì in fila per firmare, pagare e ritirare gli attestati. Con tanto di esame finale. Facile rispondere “sì” o “no” ai quiz, se mentre te li consegnano, qualcuno ti passa pure un secondo foglio con le risposte giuste.
Il tutto per la modica cifra di 1.200 euro a persona, 600 alla scuola e 600 al caporale della mafia. E i cinesi tornano a casa con il loro attestato in tasca. Una truffa con tanti complici e molti livelli. Dai i titolari delle scuole, ai dirigenti, fino gli esaminatori finali. Tutti incaricati di pubblico servizio, tutti indagati con l’accusa di associazione a delinquere.
In Toscana, Molise e Campania l’avevano fatta ancora più facile. Perché perdere tempo con i finti corsi quando si può falsificare direttamente i certificati, senza nemmeno dover fingere di andarci a scuola? E dire che l’indagine, partita dal comando provinciale di Padova e coordinata dal pm Sergio Dini, era nata seguendo “solo” il filone dell’immigrazione clandestina.
Con l’operazione “Testa di serpente”, nel giugno del 2011, la Finanza aveva scoperchiato per la prima volta il fenomeno, arrestando tre persone e denunciandone dieci. Cinque mesi più tardi, “La grande serrata” aveva portato alla chiusura di 207 esercizi pubblici, tutti aperti con i falsi certificati. Ma la dimensione del fenomeno, secondo gli investigatori, è ancora più vasta. Gli 007 del colonnello Ivano Maccani, in questi mesi hanno continuato a lavorare: così, ecco spuntare più di mille bar, ristoranti, negozi e minimarket totalmente illegali. In 18 Regioni su 20, tutte tranne Val d’Aosta e Basilicata.
Il Lazio è in testa con 304 esercizi abusivi, che abbasseranno presto le serrande entro poche settimane. Poi c’è il Veneto con 242, la Toscana con 110 e la Lombardia con 108 abusi. I falsi non riguardano solo i titolari delle licenze taroccate, ma anche i dipendenti: in 1.400 sono stati denunciati perché in possesso di libretti formativi fatti in casa, da Girardi o da altri studi di commercialisti amici fra Padova, Verona e Vicenza. Se non vuoi fare il titolare, ma ti basta un posto da cameriere o barman, i falsari facevano lo sconto. Con miseri 50 euro stavi a posto.
Ma che fine hanno fatto tutti quei quattrini? “Stiamo approfondendo possibili ipotesi di riciclaggio”, spiega il colonnello Maccani: “Soprattutto in periodi di crisi come questo, il denaro cash è sinonimo di potere. Bar, ristoranti, minimarket ne generano parecchio e quello che preoccupa è la turbativa del mercato che si compie attraverso attività illecite”. Come nel caso del videopoker. I finanzieri hanno scoperto e denunciato per abusiva attività finanziaria il titolare di un noleggio delle slot-machine, che prestava grosse somme ai cinesi per foraggiare l’apertura abusiva di nuovi esercizi. Anche 30 o 40 mila euro a persona, concessi in cambio di cambiali, ma soprattutto con la garanzia che nei locali dei cinesi sarebbero stati piazzati i suoi videopoker, visto che la statistica dice che i cinesi sperperano alle macchinette migliaia di euro.
L’altro sistema è che i soldi per l’avvio delle attività arrivino direttamente dalla Cina, dove poi tornano attraverso i money transfer: come quei 16 mila euro macchiati dal sangue di Zhou Zheng e della sua figlioletta Joy, uccisi a Roma per una rapina finita in tragedia. Una delle tante, tantissime rapine a carico di una comunità che gestisce un fiume di denaro.
Ecco che dall’indagine sui certificati falsi sta emergendo un quadro inquietante. Quella che la Guardia di Finanza ha battezzato la “cabina di regia”, una rete capillare che favorisce l’arrivo dei lavoratori cinesi e si prende cura di loro. Si parte dalle agenzie di viaggio che procurano i visti turistici. Una volta in Italia, è la volta delle agenzie immobiliari mobilitate per trovare una sistemazione provvisoria. Poi serve il permesso di soggiorno e, per ottenerlo, serve avere un lavoro.
Qui entrano in ballo gli studi dei commercialisti, cinesi ma anche italiani: i nuovi arrivati vengono assunti da loro connazionali, già residenti, il tutto per finta. Una volta ottenuti i permessi, i cinesi si licenziano non appena riescono ad aprire un’attività in proprio e il ciclo ricomincia. Altre assunzioni fittizie, altri falsi. Ci sono bar di 20 metri quadrati con 11 dipendenti, che funzionano da copertura del lavoro da schiavi che i cinesi sono costretti a fare nei laboratori clandestini dove di notte si assemblano le tomaie, si cuciono i vestiti, si concia la pelle o si fabbricano le griffe del falso made in Italy.
Paolo Cagnan per “l’Espresso”
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