Il rinvio a giudizio di Saverio Romano non è che l’ultimo dei tantissimi politici indagati per collusioni con la malavita
Saverio Romano è l’ultimo politico di spicco ad essere accusato di rapporti con la criminalità organizzata. Il ministro dell’Agricoltura, ex Udc, era un pupillo di Toto Cuffaro, uno dei simboli della vicinanza tra la mafia e la politica. Un legame pervasivo che è rimasto costante tra la I e la II Repubblica. Dopo Mani Pulite e la primavere siciliana poco è in realtà cambiato, e il fenomeno della politica collusa con il crimine organizzato si è esteso in tutto il resto del Paese.
ROMANO, UN NUOVO CASO CUFFARO? – In questo momento l’Italia ha un ministro siciliano accusato di aver intessuto rapporti con la mafia. Attualmente il presidente della regione sicula Raffaele Lombardo èanch’egli accusato di collusioni mafiose, mentre il predecessore di Lombardo, Toto Cuffaro, sconta la sua pena in carcere per concorso esterno in associazione mafiosa.
Il gip di Palermo, Giuliano Castiglia, ha chiesto l’imputazione coatta per concorso esterno in associazione mafiosa per Saverio Romano, attualmente ministro delle politiche agricole. La procura ha dieci giorni di tempo per formulare il capo d’accusa e chiedere il rinvio a giudizio. La procura nei mesi scorsi aveva chiesto l’archiviazione per Romano, sospettato di collusioni, ma il giudice per le indagini preliminari sulla base degli atti a lui presentati ne ha chiesto l’imputazione. Delle presunte collusioni del ministro hanno parlato i pentiti Angelo Siino e Campanella.
In precedenza, la pubblica accusa aveva chiesto l’archiviazione per il ministro Romano, anche se nell’udienza davanti al Gip il pubblico ministero Nino Di Matteo aveva citato tre episodi nei quali erano emersi pesanti coinvolgimenti dell’ex esponente dell’Udc siciliana.
La Procura di Palermo insiste per la richiesta di archiviazione nei confronti del ministro dell’Agricoltura Saverio Romano. Ma davanti al gip Giuliano Castiglia il pubblico ministero Nino Di Matteo accusa: “Dall’indagine è emerso un quadro preoccupante di evidente contiguità con le famiglie mafiose di Cosa nostra”. Secondo la ricostruzione del magistrato che a lungo ha indagato sui rapporti fra mafia e politica, ci sarebbe la prova di almeno tre episodi che vedono come protagonista Romano. “Innanzitutto, la richiesta di consenso elettorale per Cuffaro sollecitata nel 1991 ad Angelo Siino – spiega Di Matteo in udienza – con la consapevolezza che Siino orbitasse in ambienti mafiosi”.Il secondo episodio citato dal pm riguarda un pranzo a Roma, in un ristorante a Campo dei fiori: “Era presente anche l’attuale pentito Francesco Campanella – spiega – Romano disse, facendo riferimento a lui: Francesco mi vota, perché siamo della stessa famiglia”. Per la Procura, “non si tratterebbe della famiglia Dc, ma della famiglia mafiosa di Villabate”. Il terzo episodio riguarda la candidatura di Giuseppe Acanto: “Fu caldeggiata a Romano da Campanella e da Nicola Notaro, il responsabile cittadino del Cdu oggi condannato per concorso esterno in associazione mafiosa”. Conclude il pm: “Queste sono le prove della contiguità di Romano ad ambienti mafiosi, ma non sono sufficienti per dimostrare il suo contributo specifico e consapevole all’associazione mafiosa”. Il gip si è riservato di decidere.
COLLUSIONE CON LA MAFIA, STORIA CONTINUA – Se la fine del pentapartito viene spesso fatta coincidere con l’omicidio di Salvo Lima, l’uomo che teneva i rapporti tra la Dc e la criminalità organizzata siciliana, la Seconda Repubblica che è seguita non ha mai, in realtà, introdotto quella rottura con le mafie che sembrava possibile a inizio degli anni novanta. All’inixio dell’attuale legislatura c’erano otto parlamentari che sono stati indagati, condannati in primo o secondo grado oppure in via definitiva e quindi arrestati per aver intrattenuto rapporti con la criminalità organizzata. Il primo nome è ovviamente quello del senatore a vita Giulio Andreotti, la cui sentenza ha stabilito come l’ex leader democristiano avesse avuto rapporti con la mafia fino al 1980, anche quel reato gli è stato prescritto. Il secondo nome si è dimesso dal suo incarico senatoriale a causa della sentenza definitiva. Toto Cuffaro, ex presidente della Sicilia, si è costituito a inizio gennaio dopo che la Cassazione lo ha condannato a sette anni di carcere per rivelazione di segreto d’ufficio e favoreggiamento personale, con l’aggravante di aver favorito l’intera organizzazione mafiosa di Cosa Nostra.
Per la Suprema Corte è «accertata» la «sussistenza di ripetuti contatti» fra l’ex governatore della Sicilia, Salvatore Cuffaro e «vari esponenti» di Cosa Nostra: questo, scrive la Cassazione, «spiega» quale sia stato «l’atteggiamento psichico» dello stesso Cuffaro nel rivelare al boss di Brancaccio Guttadauro, «con il quale aveva stipulato un accordo politico mafioso», la notizia che c’erano indagini sul capo mandamento, inserendo nella lista elettorale per le elezioni siciliane del 2001 persone gradite ai boss e rivelando, in più occasioni, a personaggi mafiosi l’esistenza di indagini in corso nei loro confronti.
In un passo della sentenza di condanna di Toto Cuffaro viene citato un altro politico processato per mafia, Calogero Mannino, attuale componente del gruppo dei Responsabili, che però è stato assolto dopo un lungo percorso giudiziario. La Cassazione ricorda che Calogero Mannino, l’ex dc ministro dell’Agricoltura, leader di riferimento per Cuffaro, «aveva rimproverato aspramente il Cuffaro per essersi recato dall’associato mafioso Angelo Siino per chiedergli sostegno elettorale» Nell’incontro con un boss mafioso siciliano rimproverato da Calogero Mannino al suo protetto Cuffaro era presente anche Saverio Romano, il ministro ora rinviato in giudizio per il reato di concorso esterno all’associazione mafiosa. Un iter processuale simile, anche se meno lungo, di Calogero Mannino, è stato subito da Vladimiro Crisafulli, uomo forte della sinistra siciliana ed attuale senatore del Partito democratico. Condannato per reati contro la pubblica amministrazione ma assolto per l’accusa di collusioni con la camorra è invece stata la sorte giudiziari di Alfredo Vito, recordman di preferenze della Dc campana, trasmigrato poi in Forza Italia e nel Pdl berlusconiano. Al fianco di Vito siede il tenebroso Nicola Casentino, attualmente indagato per varie vicende nelle quali sarebbero emersi rapporti con la Camorra. Il senatore Sergio Di Gregorio, noto per il suo passaggio da Di Pietro alla Casa della Libertà ai tempi della pericolante Unione, è stato indagato per per il reato di riciclaggio, con l’aggravante di aver agevolato un’associazione mafiosa. Il procedimento è stato avviato dopo alcuni accertamenti svolti dalla Guardia di finanza, a seguito del ritrovamento di una serie di assegni girati dal parlamentare eletto con l’Italia dei valori di Di Pietro (e dunque nel centro-sinistra) e poi messosi «in proprio» col movimento Italiani nel mondo per votare quasi stabilmente insieme al centrodestra. Un’indagine su un suo favoreggiamento della ‘ndrangheta sulla vendita di una caserma a Reggio Calabria è invece stata archiviata. L’anno scorso è invece scoppiato il caso di Nicola Di Girolamo, un senatore eletto all’estero grazie ai voti della ‘ndrangheta. Di Girolamo, dopo lo scoppio delle indagini, si è dimesso ed è stato arrestato, per poi patteggiare la condanna a cinque anni di carcere per truffa elettorale con aggravante mafiosa.
IL CASO DELL’UTRI – La Cassazione dovrà stabilire se Marcello Dell’Utri ha avuto rapporti di collusione con la mafia siciliana. Al momento il senatore del Pdl, tra i fondatori di Forza Italia e vicinissimo al premier Berlusconi, è stato condannato in secondo grado a sette anni di reclusione, una diminuzione di pena dopo il processo di primo grado che aveva già ritenuto colpevole Dell’Utri.
Sette anni di carcere per Marcello Dell’Utri, ma è assolto per le “condotte successive al
1992, perché il fatto non sussiste”. Questo il verdetto della seconda sezione della corte d’appello di Palermo presieduta da Claudio Dall’Acqua (a latere Salvatore Barresi e Sergio La Commare). La corte d’appello ritiene invece provato che Dell’Utri intrattenne stretti rapporti con la vecchia mafia di Stefano Bontade e poi, dopo il 1980, con gli uomini di Totò Riina e Bernardo Provenzano, almeno fino alla stagione delle stragi di Falcone e Borsellino, nel 1992. Il coinvolgimento mafioso di Dell’Utri, sul quale dovrà sentenziare in maniera definitiva la Cassazione, è particolarmente rilevante visto la sua storica vicinanza con il presidente del Consiglio Berlusconi. Più volte il suo caso giudiziario è finito al centro della cronaca politica, come nella campagna elettorale del 2008. Allora il senatore Dell’Utri, ricandidato in posizione sicura nelle liste del PDL, affermò di considerare Vittorio Mangano un eroe.
Mangano era lo stalliere della casa di Arcore di Berlusconi, ed è stato condannato con sentenza definitiva per l’omicidio di Giuseppe Pecoraro e Giovambattista Romano. Nei processi legati ai delitti mafiosi è stato evidenziato il suo ruolo di capo mandamento, mentre il giudice Borsellino l’aveva definito uno di quei personaggi che “ ecco erano i ponti, le teste di pontedell’organizzazione mafiosa nel Nord Italia”.
DAL PARLAMENTO ALLE REGIONI, POCO CAMBIA –Passando dal Parlamento agli organismi legislativi regionali, la situazione non cambia moltissimo, purtroppo. Pochi mesi fa il presidente della commissione anti mafia Beppe Pisanu aveva denunciato le ancora pesanti infiltrazioni malavitose nella formazione delle liste per le regionali del 2010
Quarantacinque violazioni al codice di autoregolamentazione antimafia alle elezioni regionali del 2010. E’ lo sconfortante bilancio reso noto dal presidente della Commissione Antimafia Giuseppe Pisanu, secondo la cui relazione 11 casi hanno riguardato candidati eletti e 34 candidati non eletti. Sullo stato dei procedimenti nei loro confronti, risulta che 25 sono definitivi, 15 non definitivi e 5 da approfondire. Il rapporto mafia-politica è, ancora una volta, soprattutto locale: “Sedici dei 45 segnalati risultano candidati in liste di rilevanza nazionale, altri 4 in liste civiche con espliciti riferimenti a partiti nazionali ed i restanti 25 in liste civiche locali – spiega Pisanu -. Il 55,5% delle violazioni, dunque, si verifica su liste squisitamente locali”, a conferma del consolidamento della criminalità organizzata negli ambiti comunale e regionale. Vicinanze bipartisan e locali, sì, ma con prevalenze geografiche ben precise: “Esclusivamente nelle regioni dell’Italia centro-meridionale con assoluta prevalenza della Puglia, della Campania e della Calabria”. “Vicende giudiziarie anche recenti – ricorda l’ex ministro degli Interni – ci hanno rivelato lo spettacolo non certo inconsueto di candidati che si offrono ai boss mafiosi in cambio del loro sostegno elettorale. Sappiamo che in genere le mafie non fanno politica, ma se ne servono a tutti i livelli. Non propongono candidati, ma utilizzano gli eletti, pronte a sostenerli successivamente per i servigi resi, come a punirli per le promesse non mantenute”.
Alla guida della regione Sicilia gli ultimi due presidenti sono stati indagati per mafia. Toto Cuffaro è stato condannato con sentenza definitiva, mentre Raffaele Lombardo al momento è stato solo indagato in un’inchiesta che ha coinvolto molti esponenti della politica siciliana.
Gli imprenditori avevano rapporti saldi con Cosa nostra. E la politica aveva una “collusione perversa” con i boss. Questo il quadro emerso dall’inchiesta denominata Iblis condotta dalla procura di Catania che ha portato all’arresto di 48 persone e al sequestro di beni per 400 milioni di euro. I magistrati sottolineano il comportamento di alcuni imprenditori “non più vittime ma compiacenti, strumento per la operatività della mafia nel mondo degli affari”. Secondo la procura etnea, ad esempio, il deputato regionale dei Popolari per l’Italia domani (Pid) Fausto Fagone ex sindaco del comune di Palagonia, arrestato oggi, avrebbe “intrattenuto strettissimi rapporti con Rosario Di Dio scarcerato nel 2003 dopo una detenzione per mafia”. Ora gli arrestati, oltre Fagone, ci sono anche il consigliere della Provincia di Catania dell’Udc, Antonino Sangiorgi, l’assessore del Comune di Palagonia, Giuseppe Tomasello, e l’imprenditore e assessore al Comune di Ramacca, Francesco Ilardi. Il gip Luigi Barone ha rigettato la richiesta di arresto avanzata dalla Procura nei confronti del deputato regionale ex Pdl Sicilia e adesso Gruppo misto Giovanni Cristaudo. Indagato anche il presidente della Regione Siciliana, Raffaele Lombardo, che è estraneo al blitz, perché nei suoi confronti la Procura non ha richiesto alcun provvedimento.
Anche in Calabria nello stesso periodo c’è stata una retata di arresti che ha colpito anche un esponente del consiglio regionale, coinvolto in un caso di voto di scambio con la ‘ndrangheta.
Tra gli arrestati c’è anche un consigliere regionale, Santi Zappalà, eletto nelle fila del Pdl. L’inchiesta, denominata «Reale», è coordinata dalla direzione distrettuale antimafia di Reggio Calabria, vede coinvolti anche altri 4 candidati alle ultime elezioni. Si tratta di soggetti che erano in corsa per un seggio al consiglio regionale in liste diverse, ma tutte convergenti sull’attuale governatore Giuseppe Scopelliti. Si tratta di Antonio Manti (Alleanza per la Calabria), Pietro Nucera (Insieme per la Calabria), Liliana Aiello (Insieme per la Calabria) e Francesco Iaria (Udc).
Nel 2005 la mano della ‘ndrangheta nella politica calabrese aveva sconvolto l’Italia, quando davanti al seggio delle primarie dell’Unione era stato ucciso Francesco Fortugno, vice presidente del consiglio regionale ed esponente della Margherita di Locri. Un omicidio di chiaro stampo malavitoso, che determinò la nascita del movimento “Ammazzateci Tutti”, fondato dai ragazzi della cittadina calabrese assunta spesso alle cronache nazionali per i reati commessi dalle ‘ndrine locali.
ANCHE AL NORD COLLUSIONI MAFIOSE- Gli organismi legislativi del nostro Paese sono dunque sempre caratterizzati dalla presenza di esponenti che sono stati indagati, o condannati, per la loro collusione con le mafie italiane. Dal Parlamento ai consigli regionali poco cambia, e nei Comuni la situazione è talmente disastrosa, con l’elenco di amministrazioni sciolte per infiltrazioni malavitose così lungo, che non basterebbe nessun articolo per raccontarlo. Se il connubio criminalità organizzata politica è particolarmente acuto al Sud, il Nord è tutt’altro che immune da questa problematica. Negli ultimi anni l’ascesa della ‘ndrangheta, di gran lunga l’organizzazione criminale più presente sopra il Po, ha reso abituale ciò che era prassi al Sud. Numerosi comuni sono stati sciolti per infiltrazioni mafiose, in Liguria così come in Lombardia, tanto nel milanese quanto in Brianza, anche se a Desio i consiglieri si sono dimessi prima della molto probabile decisione del prefetto. Tra 2010 e 2011 sono stati arrestati alcuni direttori della sanità lombarda, nomine di stretta competenza politica. Carlo Antonio Chiriaco, direttore dell’Asl di Pavia e persona molto vicina a Giancarlo Abelli, uno dei big di Comunione e Liberazione, è stato arrestato a luglio del 2010 insieme ad altre 300 persone nella maxi operazione che ha smantellato una parte significativa della ‘ndrangheta. Chiriaco si era autodefinito fondatore della ‘ndrangheta a Pavia. In questa inchiesta erano emerse le frequentazioni di due consiglieri regionali, uno del Pdl e l’altro della Lega, con i boss locali.
Angelo Ciocca, 35 anni, enfant prodige cresciuto a pane e Lega, passa in pochi anni da assessore ai lavori pubblici nel comune di San Genesio, nel Pavese, al consiglio provinciale al Pirellone (sempre in quota Carroccio) dove entra nella primavera scorsa con quasi 19mila voti. Il nome di Ciocca (che non è indagato) compare nelle carte dell’inchiesta dei carabieniri e della Dia. Il consigliere regionale viene fotografato in compagnia di Pino Neri, all’epoca capo della ’ndrangheta lombarda. E tira una brutta aria anche per Massimo Ponzoni, l’ex assessore all’Ambiente del Pirellone. Dopo aver rinunciato al ruolo di coordinatore del Pdl a Monza e in Brianza e al posto in giunta, Ponzoni resta nella bufera. Il giudice l’ha definito «parte del capitale sociale dell’organizzazione» criminale, è indagato per bancarotta e corruzione dai magistrati di Monza, e sempre dalla procura di Monza potrebbe arrivare altre tegole. E tutto questo non è sfuggito ai vertici del partito.
La penetrazione malavitosa al Nord è strettamente legata al potere politico lombardo, dominato da anni dall’alleanza tra Comunione e Liberazione e Lega.
C’è il revisore dei conti della fiera di Milano che “divide i soldi in nero” con il capo della ‘ndrangheta. Il direttore sanitario arrestato per mafia che svende appalti in cambio di “un sacco di voti” per un parlamentare “legato a doppio filo a Roberto Formigoni”. C’è il nuovo manager degli ospedali lombardi che è tanto amico dei boss calabresi da farsi definire “il nostro collaboratore”. C’è il vicepresidente del consiglio regionale, già indagato per bancarotta e corruzione, che si vede inserire dai giudici nel “capitale sociale della ‘ndrangheta”. E poi ci sono gli imprenditori mafiosi, che continuano ad avvelenare terre e acque della Lombardia. Mentre la politica reagisce vietando ai tecnici regionali di aiutare le inchieste della magistratura. Gli atti d’accusa della direzione antimafia di Milano svelano il lato oscuro di Comunione e Liberazione. Alla base di Cl c’è un movimento forte di migliaia di persone oneste, laboriose, profondamente cattoliche. Al vertice però, attorno a Roberto Formigoni, governatore-padrone della Lombardia dal 1995, si è creata una macchina di potere con agganci spaventosi. A documentarli è la requisitoria dei pm (3.286 pagine, in gran parte inedite) che nel luglio 2010 ha portato in carcere più di 300 imputati di mafia. Tra tanti reati, i giudici delle indagini hanno ritenuto provati molti fatti al limite della legalità: relazioni di “contiguità e vicinanza”, che non raggiungono gli estremi della complicità penale, ma consentono ai capimafia di “beneficiare di rapporti continuativi con altri poteri, economici e politici”.
Spesso i potenti locali non vengono accusati di reati specifici, ma nelle indagini emergono i loro rapporti con criminali, una circostanza che ha trovato conferma anche in un altro caso che riguarda la ‘ndrangheta a Milano.
Il boss Martino, secondo il gip, era in rapporti che “non sembrano essere occasionali e passano per interessi economici e imprenditoriali comuni” con Luca Giuliante (non indagato), tesoriere del Pdl lombardo, avvocato di Mora, del presidente della regione, Roberto Formigoni, e anche di Karima El Mahroug, meglio conosciuta come Ruby Rubacuori. Il giudice riporta una telefonata del 10 marzo dello scorso anno tra Giuliante (che non è indagato) e Martino, in cui quest’ultimo si presenta come “l’amico di Lele”, (Mora, ndr) e chiede di poterlo incontrare. Il legale, secondo la ricostruzione del giudice, si rende disponibile e dall’ascolto delle conversazioni viene a galla che Giuliante riferisce a Martino una serie di notizie “in merito a una gara d’appalto, non meglio specificata, in cui risultano interessati i fratelli Mucciola”.
La Mafia in Italia è dappertutto, e la politica, invece di combatterla, troppo spesso la frequenta, e non di rado si allea in un rapporto che appare indissolubile.
Giovanni Percolla
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