Sull’Appennino è caccia all’oro nero

Le compagnie petrolifere americane si contendono il diritto di trivellare la Pianura Padana (e non solo). Ma i sindaci dicono no

Le fonti fossili si riducono in tutto il mondo, le materie estratte diventano sempre peggiori in qualità e minori in quantità. A livello globale, le grandi compagnie petrolifere stanno ormai da qualche anno cercando di assicurarsi la proprietà delle ultime piccole riserve, che all’epoca del boom furono ignorate perché meno convenienti.

LE FONTI FOSSILI IN ESAURIMENTO – Gli esempi di questo recente cambio di rotta sono numerosissimi. Dalle tristemente note piattaforme per l’estrazione a grandi profondità, come la DeepWater Horizon della tragedia della Louisiana, allo sfruttamento delle sabbie bituminose del Canada, attività poco redditizia eppure assolutamente distruttiva per l’ambiente. Raschiando il fondo del barile, alcune imprese americane dell’energia fossile sono giunte da qualche tempo in Italia, in particolare nella zona Padana e nella bassa Lombardia; ma non solo. La cartina mostra tutte le zone in cui sono state individuate zone trivellabili lungo la penisola.

PICCOLI POZZI, GRANDI COLOSSI – AleAnna Resources ha puntato, attraverso le società Bonanza e Bluescape, alla zona del ferrarese, mentre la texana Hunt Oil ha scelto l’alto appennino emiliano, nelle province di Bologna e Modena. Se è vero che in alcune zone d’Italia, come la Basilicata, esistono imponenti giacimenti continentali, al nord le risorse sembrano essere poche e distribuite in molte piccole sacche quindi difficili da sfruttare su larga scala. Il caso è interessante perché sembra rendere conto dell’urgenza da parte dei colossi internazionali di spartirsi le briciole di una torta sempre più piccola, anche a costo di inimicarsi la popolazione locale, sempre più attenta alla tutela del territorio.

PETROLIO D’ALTA QUOTA – E’ proprio quanto sta accadendo sull’Appennino, dove la Hunt Oil ha presentato due progetti, per la zona del fiume Panaro nel modenese e per il fiume Reno nei dintorni di Bologna. I comuni coinvolti, secondo il geometra Luigi Ropa, responsabile ambiente di uno di questi centri, Sasso Marconi, sarebbero una trentina. Ropa spiega inoltre perché stavolta la voce dei cittadini sia stata ascoltata anche dalla Regione e dalle due Province di Modena e Bologna, che inizialmente avevano dato all’impresa texana il permesso di operare delle ricerche preventive in zona. “Alcune delle zone coinvolte – chiarisce – sono vincolate a causa del particolare valore naturalistico o perché sede di centri termali; ma per la maggior parte del territorio su cui è stato dato il via libera alle indagini vige una grande indeterminatezza. Ad esempio su una fascia di 20 chilometri, appurato per ipotesi che ci siano idrocarburi da estrarre, l’azienda potrebbe fare un buco oppure dieci, o cinquanta”.

SINDACI SUL PIEDE DI GUERRA – La mobilitazione è stata imponente fin da subito, ma l’ultima notizia riguarda lo schieramento congiunto dei sindaci della comunità montana bolognese, che si sono opposti alla sola idea di una speculazione nelle loro zone da parte della Hunt Oil. Siamo solo all’inizio, in effetti: l’assessore all’ambiente della Provincia bolognese, Emanuele Burgin, spiega che il processo è ancora in fase embrionale. Le ipotetiche trivellazioni potrebbero svolgersi solo al termine di tre passaggi operativi, tutti soggetti a VIA (valutazione di impatto ambientale). Al momento si è presa in considerazione solo la possibilità di un sopralluogo a fini esplorativi, impiegando sistemi di indagine non invasivi, basati su percussioni e piccole cariche esplosive che non inciderebbero sul suolo oltre i 50 centimetri di profondità.

LA PROVINCIA RISPONDE – “La nostra – afferma Burgin – è stata una partecipazione tecnica ad un procedimento estremamente rigoroso. Come Provincia abbiamo deciso di mantenere in questa prima fase un profilo tecnico, quindi inerente all’oggetto della richiesta. Sul piano politico la strada è talmente lunga che solo più avanti si presenteranno momenti importanti in cui la questione del territorio e la posizione dei cittadini dovrà essere tenuta in alta considerazione”.

MONTE SAN PIETRO PORTAVOCE DELLA PROTESTA – Ma se la Provincia e la Regione restano possibiliste almeno in questa fase, i cittadini e i comuni sono già sul piede di guerra. Il comune di Monte San Pietro, per esempio, ha già espresso come molti altri una posizione nettissima: “Tali progetti, per quanto lacunosi, implicano comunque un impatto ambientale dannoso con rischio di grave nocumento al paesaggio, agli abitanti ed alle attività economiche prevalenti del nostro territorio. Al momento non è dato conoscere la localizzazione precisa delle linee sismiche in progetto. I gravi impatti attesi, derivanti non tanto dall’attività d’indagine geosismica, quanto dall’eventuale perforazione per la coltivazione di giacimenti (se rinvenuti nella prima fase di ricerca) sono relativi a diverse matrici ambientali quali: suoli, acque superficiali e di falda profonda; aria, per la perdita fisiologica di gas dai pozzi estrattivi; subsidenza, fenomeno già noto nel territorio emiliano oggetto di forti depressioni del terreno causate dall’ estrazione di gas e acqua”. Così parla il consiglio comunale riguardo alla concessione di un permesso esplorativo per la Hunt Oil, mettendo in luce le criticità di un territorio ad alto valore ambientale e soprattutto caratterizzato da un’economia di tipo locale.

L’OPINIONE DEL GEOLOGO – Il dottor Gabriele Ponzoni, dell’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia (INGV), spiega che in effetti il problema delle falde acquifere è molto delicato: “esistono due tipi di falde, quelle di superficie dette ‘freatiche’ e quelle profonde dette ‘artesiane’, che sono confinate da un tetto e una base di suolo e presentano una forte pressione. Facendo delle trivellazioni incaute si potrebbe alterare la pressione di queste falde e congiungerle con altre che contengono acque incontaminate, adatte all’uso domestico. Abbiamo bisogno di acqua, e ne avremo ancora più in futuro, per cui bisogna fare grande attenzione: questo rischio può essere arginato impiegando precise cautele, ma resta concreto”.

ESTRAZIONI PERICOLOSE – Hunt Oil, in effetti, prevede in base ai più innovativi sistemi d’estrazione sia l’utilizzo di acqua a pressioni molto elevate per spaccare gli strati rocciosi, sia sostanze chimiche nocive che finiscono immancabilmente per contaminare le falde acquifere. In Texas si sono registrati casi di cittadini che nelle loro case private hanno visto uscire gas dal rubinetto dell’acqua.

GAS O PETROLIO? – Un altro punto su cui i cittadini sono in forte allarme è la natura delle trivellazioni. Durante un’assemblea pubblica organizzata dal PD locale, un cittadino che ha preferito restare anonimo ma che ha dichiarato di aver lavorato a lungo nel settore, ha affermato che la compagnia petrolifera dichiari di cercare gas naturale per “tenere buona” l’opinione pubblica, ma in realtà sia alla ricerca di petrolio, che qualora venisse trovato darebbe il via a un business tutto a favore di Hunt Oil e di altre realtà ancora più grandi che operano alle sue spalle.

TIMORE SULLE STRADE DI MONTAGNA – Naturalmente queste dichiarazioni, in mancanza di argomenti e prove, lasciano il tempo che trovano, ma il fatto che siano riportate meticolosamente nei verbali d’assemblea e siano discusse sui molti forum dedicati alla vicenda dà la misura della preoccupazione che serpeggia tra la gente. Ponzoni fa chiarezza anche qui: “Gas e petrolio si trovano molto spesso insieme, quindi non c’è differenza di impianto estrattivo. Il vero problema è la subsidenza che consegue all’estrazione. Il punto è che bisogna volenti o nolenti tenere in piedi una società che è tecnologica e non rurale, e questo richiede energia. O si creano dei sistemi alternativi seri in grado di sostenere i momenti di picco energetico, che sono il vero problema delle reti, oppure bisogna riconvertire le attività umane: non si può avere la botte piena e la moglie ubriaca! Bisogna fare delle scelte a livello sociale e culturale oltre che ambientale. E le energie rinnovabili possono aiutare ma non risolvono il problema”.

INNOVAZIONE SI’, MA STRATEGICA – Si apre anche in questo caso la questione di una giusta pianificazione energetica di medio e lungo termine, che a detta del geologo sembra completamente assente in Italia. In effetti, visto sotto questa lente, l’insieme dei progetti nazionali per lo sviluppo di nuove fonti energetiche, alternative o meno, pare davvero progettato nella totale noncuranza di quanto accadrà anche solo tra un decennio. Si parte da impianti eolici sparsi in tutto lo stivale i cui materiali sono garantiti per soli vent’anni, con torri costruite su territori ad altissimo rischio idrogeologico, che necessitano nei momenti di picco di una centrale elettrica a carbone per far fronte ai blackout.

UN AFFARE IN PERDITA – Stessa situazione per eventuali trivellazioni industriali, le quali avrebbero un forte impatto ambientale consumando suolo che non potrebbe mai più tornare allo stato originario, nemmeno dopo l’esaurimento dei pozzi. Impianti simili, poi, impoverirebbero le comunità locali privandole del valore ambientale che costituisce uno dei motori della loro economia a fronte di royalties bassissime: “Nonostante tali probabili, oltre che possibili, pesanti conseguenze, – recita il verbale del comune di Monte San Pietro, datato 16 giugno – il ritorno per le finanze pubbliche locali sarebbe praticamente inesistente. In Italia per legge i profitti dell’estrazione sono totalmente a vantaggio delle imprese estrattrici (eccezion fatta per una piccolissima e risibile quota di royalties a beneficio della comunità locale), rimanendo invece i possibili danni, costi e degrado completamente a carico delle suddette comunità. Nello specifico una pesante franchigia esclude il pagamento delle royalties sui primi 25 milioni di metri cubi annui estratti; dopodiché il 90% del ricavato spetterebbe all’azienda estrattrice e del restante 10%, il 55% spetterebbe alla Regione, il 35% allo stato e solo il 10% ai comuni”.

IL FUTURO DELL’ENERGIA ITALIANA – Insomma, un programma che non tiene conto delle ricadute negative di qualunque intervento, chiaramente in odore di speculazione a carico dei cittadini. Il caso delle zone emiliane, da Bologna a Modena ma anche nel ferrarese dove le mire dell’industria estrattiva si sono concentrate sul delta del Po, è sintomo di un fenomeno presente in tutta Italia. Specialmente oggi, dopo il no degli italiani al nucleare, la ricerca di una prospettiva per l’approvigionamento energetico si sta facendo spasmodica e spesso miope. La legislazione sulle rinnovabili è tuttora confusa, il 20-20-20 di Kyoto sempre più distante, con il conseguente rischio di pesantissime sanzioni economiche.

PROGETTARE BENE CI SALVERA’ – “Si fa in tempo a peggiorare – conclude Ponzoni – ma anche a migliorare. Bisogna però fare delle scelte. Una pianificazione territoriale è cosa molto complessa che non si può improvvisare. Non basta che un progetto sia vagliato tramite una VIA, occorre anche la VAS, valutazione ambientale strategica. Sono degli studi complessi che richiedono un’analisi del progetto nel tempo, considerando quale sarà l’evoluzione del contesto che si va a modificare”. Su questo punto, negli ultimi anni è sorta presso i cittadini una consapevolezza che ancora difetta, in gran parte, alle amministrazioni. L’idea di tutelare il proprio ambiente vigilando sulle conseguenze delle modifiche che vi vengono apportate sta prendendo piede in molti centri rurali ma anche nelle grandi città.

CITTADINI CONSAPEVOLI – Il concetto chiave non è tanto quello di ambientalismo, sarebbe troppo facile liquidare così istanze come quelle dei comuni dell’Appennino rispetto al caso Hunt Oil. La questione pertiene piuttosto alla buona progettazione, che garantisca uno sviluppo qualitativo dei centri urbani. Una lezione che la gente comune ha imparato prima di amministratori e ministri perché prima di loro ha pagato le conseguenze dell’urbanizzazione forsennata degli scorsi decenni, che ha annegato le città nel cemento danneggiando la qualità della vita di chi vi abita oggi.

Lou Del Bello

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