Pochi se ne accorgono, ma la privatizzazione dell’acqua esiste già, e ce la troviamo ogni giorno in tavola. Il caso di Monte Pelpi e della Norda
Il 12 e 13 giugno gli Italiani sono chiamati ad esprimersi sulla privatizzazione dell’acqua pubblica, tema che da molti mesi accende il dibattito tra associazioni ambientaliste, comitati di cittadini, amministrazioni e governo. Non molti sanno però che lo sfruttamento della risorsa idrica a fini privati in Italia esiste già, ed è largamente diffuso. Parliamo dell’industria delle acque minerali, di cui il nostro Paese è uno dei maggiori consumatori in Europa e nel mondo.
IL BUSINESS DELLE MINERALI – Numerosi studi tecnici dimostrano come l’acqua proveniente dagli acquedotti urbani sia ugualmente (e in certi casi maggiormente) sana rispetto a quella imbottigliata, che costa circa mille volte di più per litro e produce una grande quantità di rifiuti, dato che le bottiglie di plastica vengono gettate per il 70% in discarica. Ciononostante, le grandi imprese dell’acqua continuano a crescere e fare affari d’oro, appropriandosi a prezzi ridicoli dell’acqua di tutti, e rivendendola come fosse loro ad un costo infinitamente superiore. Finché qualcuno non ha cominciato a mettere i bastoni tra le ruote ai grandi industriali e alla politica compiacente, con pochi mezzi compensati da cocciutaggine e perseveranza.
MONTE PELPI – E’ quanto sta accadendo nell’area di Monte Pelpi, che conta tre comuni e un piccolo numero di frazioni sull’Appennino, in provincia di Parma. Qui la popolazione ha cominciato a tenere d’occhio l’operato della Norda, quinta azienda in Italia nel settore delle minerali con un fatturato annuo di circa cento milioni di euro, che nel 2000 ha rilevato la più piccola Lynx. Lo stabilimento che ora porta l’etichetta di Norda si trova nel comune di Bedonia, nel punto in cui l’Emilia-Romagna incontra la Liguria e la Toscana. Una terra che dopo gli anni Sessanta ha subito un forte spopolamento, con picchi di perdita del cinquanta per cento. “La gente qui aveva il suo podere con un orto, una mucca e due pecore – mi spiega Pier Luigi Mori, nel direttivo di zona di Legambiente e coordinatore del Comitato Difesa Monte Pelpi, mentre ci arrampichiamo su per i tornanti sulla sua Panda grigia, verso Masanti, frazione di Bedonia – ma poi tutti sono scesi a valle per lavorare nell’industria e non è rimasto più niente”.In questi piccoli comuni di tradizione conservatrice, dove l’età media è oltre gli anta, “lo Stato non esiste, viene visto come un nemico”. La Provincia, di sinistra, non si preoccupa delle esigenze di un bacino elettorale che non l’appoggia, e i cittadini sono lasciati a sé stessi e alle piccole grandi speculazioni dei furbetti del momento. Siamo in una specie di terra di nessuno, dove l’abusivismo è endemico e molti anziani vivono grazie a false pensioni di invalidità.
L’ARRIVO DELLA NORDA – In un contesto del genere, si comprende come i comitati per la difesa del territorio e del cittadino assumano il ruolo di cani da guardia del potere economico e politico. Gruppi spontanei che si fanno carico di osservare, criticare, proteggere i diritti e il bene comune. Per questo, quando ormai undici anni fa la grande azienda, dopo aver acquisito uno stabilimento da 1.5 milioni circa, lo fece crescere (oggi i milioni annui sono 5) intervenendo sulle strade per installare tubazioni dalla sorgente alla fabbrica e chiedendo concessioni per molti nuovi pozzi e sorgenti, i cittadini non videro la cosa di buon occhio.E in effetti, il loro fiuto si rivelò azzeccato, perché l’acquedotto cittadino, in alcuni punti coincidente con le falde di pompaggio, cominciò a diminuire in portata. Nel 2004 si formò il comitato Difesa Monte Pelpi, che in uno dei suoi primi documenti metteva in luce tre problemi: l’inquinamento del torrente Ceno, dovuto agli sversamenti di acqua mista a soda caustica, usata per lavare le bottiglie di vetro, l’eccessivo sfruttamento delle fonti e dei pozzi, i disagi a causa del passaggio di camion giganteschi sulle piccole strade di montagna.
LA BATTAGLIA DEL COMITATO – Siamo al 2007, precisamente il 16 marzo, quando il comitato indice, invitando Legambiente , l’assessore provinciale e il sindaco di allora, la prima assemblea pubblica, per discutere il caso. Quello che molti partecipanti non sanno, perché avviene in tutta segretezza, è che proprio il giorno prima è stato stilato un protocollo d’intesa tra Norda, Provincia di Parma, Ato (Ambiti Territoriali Ottimali, istituzione che stabilisce le tariffe dell’acqua sul territorio provinciale), Comune di Bedonia, Comunità montana del Taro e del Ceno. In questo protocollo è previsto uno studio da effettuarsi sul Monte Pelpi per valutare l’idoneità al pompaggio delle acque, cioè se la risorsa è sufficiente sia per usi civili che per essere imbottigliata. Dato interessante, per quanto non sorprendente, lo studio è finanziato da Norda e prevede la produzione di una valutazione finale a cura della stessa Norda. Lo studio sarebbe dovuto durare tre mesi, ma si è protratto per tre anni.
RAPPORTI TRA PROVINCIA DI PARMA E NORDA – La particolarità di questo iter burocratico, eccezionalmente complesso perché portato avanti negli anni a suon di richieste del comitato e silenzi da parte delle istituzioni, sta nell’ambigua commistione tra soggetti pubblici e privati, che può solo essere insinuata ma che emerge attraverso piccoli dettagli rintracciabili solo ad un attento esame della documentazione. Per esempio, gli studi per la delimitazione dell’area destinata alla sorgente Vela I, nel 2004, vennero verbalizzati dalla Provincia alla presenza di due testimoni, per garantire la trasparenza del procedimento: questi due testimoni, Roberto Boglioli e il dottor Franco Zucchi, erano rispettivamente capo fabbrica dello stabilimento Norda di Masanti (frazione di Bedonia), e socio dell’azienda Gamma, che conta Norda tra i suoi clienti illustri. Inoltre, nel protocollo d’intesa del 2007 (articolo 1, comma 2) si legge un paragrafo relativo al “soddisfacimento della nostra ‘domanda’ industriale”. Ma il sottoscrittore principale è la Provincia di Parma, non la Norda. Ancora, il 17 dicembre dello stesso anno, nel verbale della riunione del Comitato Tecnico di Controllo rispetto al protocollo d’intesa, si mette in luce l’insufficienza dei controlli realizzati. I pozzi che dovrebbero essere sfruttati da Norda non sono stati, secondo il documento, analizzati con approccio integrato che comprenda anche l’acquedotto pubblico e le possibili interferenze che l’attività industriale avrebbe su di esso. Inoltre, la Regione specifica che: “Non sono ipotizzabili possibilità di commistione tra acque destinate ad usi disciplinati da differenti normative giuridiche dovendosi rispettare comunque gli obblighi di tutela delle concessioni legalmente costituite, di competenza delle Regioni e la gerarchia di legge tra i diversi usi della risorsa”. Praticamente, si devono rispettare le diverse competenze: prima le regioni e prima l’acqua pubblica, poi se ce n’è, la Provincia può concedere a Norda l’uso dei pozzi.
AFFARI D’ORO CON L’ACQUA PUBBLICA – In pratica, l’operazione che la Norda sta compiendo sul territorio è l’allargamento del suo parco pozzi in modo il più possibile veloce e indolore, comitati permettendo. Ma i punti dolenti (o forti, a seconda di come la si vede) sono nella normativa nazionale e regionale e vanno ben oltre il potere d’azione dei comitati. Per esempio, ogni stabilimento deve pagare alla Provincia un prezzo per l’acqua che usa. Ma non deve rendere conto dei litri che pompa dalle sorgenti e dai pozzi, paga solo in base agli ettari occupati nel terreno in cui opera. Quindi, se un pozzo è grande o piccolo, io pago lo stesso. Tra l’altro pochissimo: a Masanti, circa 6000 euro (l’anno) tra permesso di ricerca e sfruttamento di due pozzi e altri 1329 per ciascuno dei tre pozzi in località Tarsogno (dati del 2008). Stiamo parlando di uno stabilimento che a Masanti fattura 5 milioni. Mori spiega che la situazione dell’Emilia-Romagna, tra l’altro, non è neppure delle peggiori: in molte regioni le concessioni si ottengono gratuitamente. Un vero esproprio del bene pubblico, quindi, che non è neppure regolamentato in modo chiaro visto che l’azienda non è obbligata a comunicare il volume di acqua che preleva dai pozzi. E che, se questi pozzi comunicano con le falde da cui si prende l’acqua civile, potrebbero sottrarla alle case degli abitanti. A questo quadro si aggiunge la recentissima analisi del mercato italiano contenuta nel Rapporto Ocse sull’Italia, che suggerisce di “effettuare quanto prima la totale privatizzazione dell’acqua e della sua gestione”.
L’AMBIENTE A RISCHIO – Il Monte Pelpi è un ecosistema naturale ancora poco antropizzato, nel quale tra l’altro vivono alcune specie rare protette dalla Comunità Europea. Nel corso degli anni, dopo l’arrivo di Lynx e Norda, si sono verificati essiccamenti di molte piccole e medie fontane che sgorgavano dal monte. “Di sette otto, sono rimaste solo due fonti attive” ricorda Mori. Negli ultimi anni, gli studi della Regione hanno attestato un significativo calo della piovosità in zona, sia in inverno che in primavera ed estate. Nel 2007, il Comune di Compiano ha tra l’altro disciplinato l’uso dell’acqua nel periodo estivo, prescrivendo sanzioni per coloro che impiegassero l’acqua potabile per uso extradomestico (innaffiare le piante, lavare la macchina). Incidere sulle risorse idriche di una zona che risente di una crescente siccità è dunque un’azione rischiosa, che andrebbe condotta con le dovute cautele. Per questo, il professor Antonio Bodini, del dipartimento di Scienze Ambientali di Parma, fu ingaggiato come consulente della Comunità Montana all’interno del protocollo d’intesa del 2007. L’obiettivo dei suoi studi era verificare l’eventuale presenza di interferenze tra i pozzi della Norda e gli acquedotti frazionali, in particolare della frazione Scopolo. Il metodo più affidabile con cui vengono condotti questi studi è l’uso del Lycopopium Clavatum; in parole povere, una tintura innocua che viene versata a monte di un corso d’acqua per verificarne, a valle, i percorsi di scorrimento e in questo caso le possibili interferenze. Il suggerimento fu respinto per mancanza di fondi. Al suo posto, sono state realizzate delle prove di pompaggio in contemporanea, tra gli acquedotti delle frazioni di Masanti e Scopolo e quello del pozzo Fontanino 2 richiesto in concessione da Norda. Il risultato è una sensibile diminuzione delle portate idriche a seguito del pompaggio, “senza che si osservi la successiva risalita della curva una volta terminata la fase sperimentale”. Cioè, il pozzo Norda riduce effettivamente la quantità d’acqua negli acquedotti, i quali non recuperano la portata neppure una volta interrotto il pompaggio contemporaneo: l’acqua delle falde non è infinita, e questo studio suggerisce che lo sfruttamento industriale potrebbe condurre ad un essiccamento definitivo.
L’INQUINAMENTO DEI TORRENTI – Un altro dei problemi ancora irrisolti ma negli anni segnalato ripetutamente, è l’inquinamento del torrente adiacente allo stabilimento, il Rio Gavelli che confluisce poi nel Ceno. Il comitato ha ottenuto nel 2005 l’installazione di un depuratore per le acque reflue dell’azienda, che prima finivano diritte nel torrente con il loro carico di soda caustica. In precedenza erano arrivate multe, a dire il vero molto basse, da Arpa e dalla Forestale che avevano fatto controlli sull’acqua. Tuttavia il problema non sembra risolto, perché continuano ad arrivare segnalazioni da parte di cittadini, campeggiatori o pescatori, che sostengono di aver visto sversare durante la notte, a depuratori spenti, acque reflue maleodoranti. Inoltre, la fauna del torrente sembra essere scomparsa. Ovviamente questi illeciti sono impossibili da dimostrare a meno di pizzicare le persone sul fatto, quindi al momento non si tratta che di voci. Certo è che l’industria delle minerali, e quello di Monte Pelpi ne è solo un caso eclatante, ha un grande impatto sul territorio, sia per il potenziale inquinamento, sia per la sottrazione di acqua potabile ai centri abitati limitrofi, e non ultimo per il rischio idrogeologico comportato dallo svuotamento dei pozzi sotterranei. Infine, cosa più grave, rappresenta una privatizzazione del bene pubblico che non è mai stata denunciata con la dovuta forza, e che viene alimentata dalle abitudini di consumo dei nostri connazionali. Sono molte le campagne nate in favore di un uso più consapevole dell’acqua, con lo scopo di ridurre il consumo di minerali in bottiglia e la conseguente mole di rifiuti. Alcuni successi si sono già registrati, ma sarà da vedere se un cambiamento avverrà in tempo utile per salvare i molti territori naturali interessati dallo sfruttamento industriale.
Lou Del Bello
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