Il presidente Hosni Mubarak si è dimesso, piazza Tahrir si è svuotata e la rivoluzione egiziana è passata dalle strade alle stanze del potere, dove sono in corso i negoziati tra i rappresentanti delle forze d’opposizione e i militari, che rimangono il vero baricentro del sistema egiziano E tutto è diventato più opaco e meno decifrabile. Non è facile capire, ad un mese dalla caduta del Faraone, cosa stia accadendo dietro le quinte e a che punto sia la “rivoluzione”. Peacereporter lo ha chiesto a Stefano Squarcina, consigliere politico del partito della Sinistra unitaria europea, appena rientrato a Bruxelles da una missione al Cairo, dove, spiega “la rivoluzione è appena cominciata”.
A che punto è la transizione egiziana? Com’è il clima nel Paese?
Anche se tutto è relativamente calmo, è in atto uno scontro estremamente forte destinato a segnare il percorso di rifondazione democratica dell’Egitto. La cacciata di Mubarak è stato solo il primo passo di un processo di trasformazione radicale, speriamo, dell’Egitto ma non è detto che vada tutto a buon fine. I militari hanno assunto il comando politico del Paese ma un Egitto con i soldati al potere non è quello che vogliono i movimenti riuniti nel Comitato 25 gennaio, quello che ha gestito le manifestazioni di piazza Tahrir. Questi gruppi giovanili hanno coniato uno slogan che dice: “Abbiamo cacciato Mubarak, ora liquidiamo il mubarakismo”, quel sistema di potere che è ancora in piedi e si è tradotto in uno stato di polizia. La rivoluzione, insomma, non è finita, è appena cominciata.
I militari hanno preso il potere promettendo di portare il Paese verso nuove elezioni entro sei mesi, per restituire il potere ai civili eppure lei parla di uno scontro in atto. Di che tipo?
Lo scontro in atto ha un carattere tattico: i militari stanno proponendo che il periodo transitorio che porterà alle nuove elezioni, duri al massimo sei mesi, mentre da parte dei movimenti rivoluzionari si chiede almeno un anno di tempo, per ricostruire la società civile egiziana. I militari, invece, mirano a chiudere rapidamente questa fase in modo che le forze dell’opposizione democratica non si possano organizzare. L’esercito ha assunto il comando politico del Paese ma un Egitto con i soldati al potere non è quello che vogliono i movimenti riuniti nel Comitato 25 gennaio, quello che ha gestito le manifestazioni di piazza Tahrir.
Sembrerebbe che ci sia una divaricazione tra le aspirazioni della piazza e quello che i militari sono disposti a concedere, è così?
Si, è proprio questo il punto. I militari hanno fatto cose molto importanti, come lo scioglimento del vecchio parlamento, la nomina di un nuovo governo, più rappresentativo delle istanze della piazza, l’arresto di fatto di Mubarak, il sequestro dei suoi beni. Hanno elaborato otto proposte di riforma della costituzione che il prossimo 19 marzo verranno sottoposte a referendum. Dall’altra parte, stanno cercando di salvaguardare il loro ruolo storico nella politica egiziana e soprattutto i loro privilegi economici.
Cosa vuole il popolo della rivoluzione?
L’apertura di un processo chiaro e trasparente che produca tre risultati fondamentali: le elezioni per un’Assemblea costituente, incaricata di elaborare una costituzione radicalmente nuova, perché gli emendamenti sui quali si voterà tra 10 giorni riguardano solo alcuni aspetti specifici che regoleranno il periodo transitorio. Poi, vogliono elezioni libere e democratiche, per le quali però non è ancora stata fissata nessuna data. Terzo punto, è il rinnovo completo del Parlamento. Tre obiettivi che necessitano di tappe intermedie, chieste a gran voce dalla popolazione, e cioè l’abolizione della legge sui partiti, della legge d’emergenza che è stata sospesa ma c’è ancora, della polizia politica e una riforma dei servizi segreti, responsabili della repressione e che sono ancora operativi, come dimostrano gli scontri di qualche giorno fa.
Chi parla con i militari? Chi partecipa ai negoziati?
Questa è una bella domanda e la risposta la dice lunga sull’atteggiamento dell’esercito. In questo momento, i soldati hanno un tipo di interlocuzione strategica con piazza Tahrir. Diciamo che spesso sentono rappresentanti del Comitato 25 Aprile ma, per quanto riguarda la preparazione del quadro istituzionale del nuovo Egitto, hanno solo due interlocutori: i Fratelli Musulmani, che non a caso hanno fatto parte del comitato ristretto che ha elaborato gli otto emendamenti costituzionali; il secondo è Amr Moussa, il Segretario generale della Lega Araba. Fino ad ora, non hanno mai incontrato o chiesto di incontrare l’opposizione politica come noi la intendiamo. Non esiste nessun negoziato ufficiale tra i militari e i partiti politici. Personalità come Mohammed El Baradei e Ayman Nour sono tenute da parte.
Moussa, a quanto pare, non ha ancora un partito di riferimento mentre i Fratelli Musulmani sono già un’organizzazione strutturata: come si stanno muovendo in questa fase di transizione?
Nel comitato ristretto, di cinque persone, che ha elaborato le modifiche costituzionali ci sono quattro militari e un esponente dei Fratelli Musulmani, invitato dopo che il gruppo aveva annunciato che non avrebbe partecipato alle elezioni presidenziali. Una parte della società civile comincia a sospettare di questo rapporto un po’ complice tra i Fratelli e i militari, per andare velocemente alle elezioni e creare un cortocircuito nel processo di ricomposizione del mondo politico egiziano. Non a caso. il movimento giovanile dei Fratelli Musulmani, che fa parte del Comitato 25 Gennaio, sta contestando la leadership dell’organizzazione, la quale a sua volta ha annunciato la formazione di un nuovo partito per partecipare alle prossime politiche, il Partito per la libertà e la giustizia, che sembra avere come modello l’Akp del premier turco Tayyip Erdogan.
Politica a parte, che Egitto ha trovato? Com’è la gestione del quotidiano da parte dell’esercito?
La situazione è relativamente normale, a parte il centro del Cairo e in particolare piazza Tahrir, dove ci sono manifestazioni continue, il resto del Paese si sta mettendo in moto, anche se ci sono ancora i segni della recente tempesta, come il coprifuoco che è in vigore da mezzanotte alle sei del mattino. L’Egitto non è bloccato, sta tornando alla normalità ma, attenzione, la tensione è alta, perché alta è la posta in gioco è alta e i ragazzi, ogni volta che succede qualcosa, tornano in piazza.
Alberto Tundo da peacereporter
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