Cina, pericolo o opportunità per i mercati?

Le imprese cinesi – molte delle quali ancora in mano allo Stato – vanno alla conquista del mondo. Una realtà con cui dovremo sempre farci più i conti


In teoria, la proprietà di un’impresa in una economia capitalistica è irrilevante. In pratica, è invece un fattore spesso controverso. Si pensi a cosa successe negli Usa negli anni ‘80 durante la cosiddetta ondata giapponese alla conquista dell’America, oppure quando Vodafone acquistò la tedesca Mannesmann. Sciovinismo politico ed interessi particolari insorsero contro le “invasioni”. In Italia, è successo qualcosa di analogo nel 2008 con l’Alitalia finita nelle mire di Air France e ceduta invece dietro le pressioni di certa politica e di certe lobby economiche ad una “cordata” italiana. Tali preoccupazioni, con ogni probabilità, sono destinate ad intensificarsi nei prossimi anni. Solo che l’assalto al cielo del nostro (inteso come Occidente) capitalismo verrà con ogni probabilità da oriente, e in particolare dalle imprese statali cinesi.

CAPITALISMO MADE IN CHINA – Il problema principale, al di là dello slogan vuoto che vuol dire tutto e niente “dell’interesse nazionale”, è che questi acquirenti cinesi sono per lo più opachi, spesso queste imprese sono gestite dirittamente dall’apparato del Partito Comunista e quindi sono rivolte a farne gli interessi. Gli obiettivi che si pongono oltre ad essere ambiziosi, sono soprattutto globali. Le offerte hanno coperto molti ambiti: dal petrolio americano alle reti elettriche brasiliane fino alle auto svedesi (Volvo). Il principale pregiudizio sulle imprese made in China non riguarda tanto il loro management, magari di stretta osservanza ai dettami del partito, quando un principio elementare ma fondamentale nell’economia globale. Ossia, che la diffusione nel mercato del capitale cinese dovrebbe apportare benefici ai suoi destinatari, ed al mondo nel suo complesso e non solo “alla madre patria”. Proprio questo concetto, sembra quello più difficile da far accettare, sia ai “conquistati” sia agli stessi “conquistatori”.

LA CINA E’ CAPITALISTA, ANZI NO – fino a qualche tempo fa, le società controllate direttamente dal governo di Pechino venivano considerate dalle stesse autorità cinesi, come creature pubbliche da avviare rapidamente alla completa privatizzazione. Ma una combinazione di fattori come il risparmio enorme nel mondo emergente ed una certa perdita di fiducia nel libero mercato, ha portato ad una rinascita del capitalismo di Stato. Circa un quinto del valore globale del mercato azionario si trova ora in tali imprese, più del doppio del livello di dieci anni fa. Un modello che sta facendo scuola anche in altre “tigri asiatiche” non comuniste. Si pensi allo sviluppo guidato dallo Stato della Corea del Sud o alle imprese controllate direttamente dallo Stato di Singapore, che si stanno rapidamente espandendo all’estero. Eppure la Cina è diversa. E già la seconda economia più grande del mondo, e nel tempo rischia di superare l’America. Le sue imprese sono giganti che fino ad ora sono stati ripiegati su se stessi, e solo ora stanno iniziando a usare le loro vaste risorse all’estero. Le imprese cinesi rappresentano solo il 6% degli investimenti globali nel commercio internazionale. Storicamente, sia la Gran Bretagna e sia l‘America nei loro momenti di picco, hanno raggiunto quote di circa il 50%. In un modo occidentale che cresce poco, la “turbo crescita” cinese potrebbe rappresentare il volano per questa nuova espansione che, qualcuno, già chiama colonizzazione dei mercati “tradizionali”. Per ora, la gran parte degli investimenti cinesi è fatta sui Titoli di Stato dei “paesi ricchi” , ma domani i grandi capitali a disposizione potrebbero essere usati per comprare aziende e proteggere la Cina proprio contro i paesi ricchi.

UNA PAURA INGIUSTIFICATA – Le imprese cinesi finora si espandono su una logica politica prima ancora che finanziaria: lo fanno per l’acquisizione di materie prime, per ottenere know-how tecnico e facilitarsi l’accesso ai mercati esteri. Ma sono sotto la guida di uno stato che molti paesi considerano un concorrente strategico, non un alleato. Uno Stato che nomina spesso dirigenti, dirige le offerte e le finanze attraverso banche statali. Per esempio Una volta acquistate delle risorse naturali, le stesse imprese tendono a diventare anche fornitrici delle altre concorrenti. Fanno come si dice il “prezzo”. Alcuni Stati dipingono questa politica economica cinese come sinistra e pericolosa dei loro interessi nazionali: per esempio, l’America pensa che le attrezzature cinesi nel campo delle telecomunicazioni, costituiscono una minaccia alla sua sicurezza nazionale. Le imprese private hanno giocato un ruolo importante nel distribuire i benefici della globalizzazione. Il principio è quello “tipico” del pensiero capitalista. Allocare risorse a loro piacimento e competere per conquistare i clienti. Tuttavia, l’idea che un governo opaco potrebbe arrivare a dominare il capitalismo globale appare è poco attraente. Le risorse saranno assegnate da funzionari, non il mercato. Tali preoccupazioni sono state espresse con crescente fervore. Australia e Canada, dopo aver hanno aperto i loro mercati ai capitali stranieri, stanno creando ostacoli per le imprese di stato cinesi, soprattutto quelle che operano in risorse naturali. Anche altri paesi stanno innalzando nuove barriere per ridurre “l’avanzata gialla” e la penetrazione nei loro mercati. Una logica che L’Economist bolla come errore strategico. Secondo il settimanale britannico “La Cina è lontana dal porre questo tipo di minaccia: la maggior parte delle sue imprese stanno solo facendo i primi passi. Anche per le risorse naturali, dove sono più attive nel “dealmaking” (nel fare affari) le imprese cinesi non possono certamente manipolare il mercato per la maggior parte delle materie prime”. Cina, pericolo o opportunità per i mercati? Secondo l’Economist, nonostante l’impostazione rigida delle imprese di Stato cinesi, il loro processo decisionale è consensuale e non dittatoriale”.

CAPITALISMO EMERGENTE – Del resto, poi, non tutte le aziende cinesi sono dirette dallo Stato. Alcuni sono in gran parte indipendenti e soprattutto interessate a fare profitti. Molte di queste sono quelle più attive all’estero. Prendete il nuovo proprietario della Volvo, Geely. Volvo oggi è in grado di vendere proprie auto in un mercato (quello cinese) fino a quel momento inaccessibile per le sue possibilità, senza dimenticare che prima dell’acquisizione cinese, il suo futuro era desolante. Le imprese cinesi possono portare nuove energie e capitali per le imprese di bandiera in giro per il mondo, ma questo rapporto non può e non deve essere senso unico. Per avere successo all’estero, le aziende cinesi dovranno adeguarsi. Questo significa assumere manager locali, investire in ricerca locale e placare le preoccupazioni locali. Capacità, per esempio, già mostrate dalle fiorenti imprese indiane all’estero. E’ il capitalismo emergente, bellezza… e con questo, prima o poi, tutti dobbiamo farci i conti.

Pietro Salvato

Fonte: The Economist

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